Donne che guardano le donne: l’esperienza italiana del Grand Tour

Aprire la porta di casa ai nostri figli, guardarli allontanarsi con un po’ di malinconia ma con la consapevolezza che altri angoli d’Europa (e più in generale l’estero) offrono ulteriori orizzonti formativi ai giovani non è una presa di posizione partorita dalla modernità. Appiedati e con un bagaglio esperienziale da riempire: che sia un’avventura temporanea, destinata a concludersi il tempo di una laurea in mano, un viaggio di conoscenza o una scelta vincolante per tutta la vita, l’uomo ha sempre visto nel viaggio una rottura dalla consuetudine e un’intersezione di potenzialità.
Risale a circa tre secoli fa l’esatto itinerario capovolto: l’Italia, meta privilegiata dei rampolli delle famiglie più abbienti, destinazione collocata nella punta di diamante del Grand Tour. Forziere di arte a tout court -letteratura, pittura, scultura, musica, bel canto – l’Italia offre un piacere consapevole e formativo, come luogo in cui la memoria nutrita da conoscenze esperite soltanto attraverso studi classici e letture occasionali prende forma nella vita reale, concretizzandosi nella sua originaria collocazione.

All’indomani della bufera napoleonica torna nella società il desiderio indomito di viaggiare e di vocarsi al vagabondaggio come gli antenati: spendere buona parte dell’esistenza sulle strade postali del continente diventa possibile, nel Settecento, anche per le donne. 
Le viaggiatrici aurorali che si aprono al <<sacro tempio delle arti e delle scienze>> appartengono alla nobiltà del sangue e del denaro, e fanno risaltare per contrasto le manchevolezze del viaggiatore-uomo, spesso uno spocchioso milord pieno di angustie mentali e di pregiudizi. Le donne che viaggiano sperimentano invece un nutrito ventaglio di interessi verso i costumi e le condizioni sociali delle popolazioni autoctone, stendendo relazioni caratterizzate da una sensibilità topografica e antropologica non comune: la loro originalità di visione, di analisi, di interpretazione e di giudizio non tocca solo il campo delle bellezze attrattive europee, ma anche istituzioni di tutela come ospedali, carceri, manicomi, verso cui manifestano comprensione e disponibilità di ascolto. 
Una supposta salute malferma curabile con clima dei paesi temperati come l’Italia e malattie della mente come la malinconia, frutto dell’inanità e della segregazione possono essere facilmente addolciti uscendo dalla prigionia. 
Margaret Cavendish, tra le prime donne filosofe seicentesche, paragona le donne a uccellini che saltellano in gabbia a cui però non è permesso di spiccare il volo. Allevare le fanciulle all’ignoranza e mortificare le loro capacità razionali, in modo da non farle andare oltre quattro bazzecole, è come lasciare inutilizzata la conoscenza come <<oro nelle miniere>>: è in questa vita di inerte circoscritta casalinga che la donna assomiglia ad uno schiavo affrancato (Madame de Stael), che non può arrogarsi il diritto di salire di grado. Le giovani, così, dalla personalità umida, non possono rivelarsi donne colte, pettegole, impertinenti, presuntuose: si monterebbero la testa e sarebbero meno addomesticabili e disponibili ad adeguarsi al carattere di un marito che non hanno scelto.

Madame de Staël

Eppure, l’esperienza italiana consente alle donne che intraprendono il Grand Tour di riflettere sul confronto tra i gradi di emancipazione femminile europei del XVIII secolo, mentre <<gli uomini sono gli stessi nei luoghi più diversi; solo la maschera ne segna la differenza>>.
Madame du Boccage, una delle prime donne a compiere il Grand Tour, sensibile all’atmosfera salottiera francese sarà attratta dal richiamo del cavalier servente, o cicisbeo, e dalla libertà di cui gode la donna italiana. A Venezia, città del piacere e della disinibizione  bassa e corporale pura e semplice (Charles de Brosses scriverà nelle sue lettere familiari del 1739 che <<non esiste altro luogo al mondo dove libertà e dissolutezza regnino più sovrani di qui. Qui l’impunità è completa per ogni azione>>), le donne hanno un colorito niveo e pallido perché preferiscono la notte al giorno e possiedono un’alcova personale distante da casa nella quale si recano con il proprio amante, contando sul trasporto sicuro e discreto di una gondola simile per colore a tutte le altre, che assicura l’anonimato alla dama. 
Dopo un’esperienza di viaggio, ritornate in patria, le donne diventano protagoniste di velenose maldicenze, sarcasmi e ironie piene di acrimonia: agli occhi dell’altra fetta di società immobile, sembrava quasi che la loro condotta irreprensibile improvvisamente  fosse cambiata. Se ritornano e riferiscono ciò che hanno visto, o sono terribilmente noiose (pare siano andate in giro <<cieche come talpe>>) oppure, se riportano qualcosa di nuovo, si dice che raccontino frottole e storie romanzate. 
Le intraprendenti viaggiatrici si fanno strada in Italia attraverso due approcci che si susseguono come un’evoluzione: il primo, prevede l’interpretazione di una civiltà nuova attraverso vie razionali e modelli pre-costituiti. Anna Miller, poetessa, scrittrice ed ereditiera inglese, sarà condizionata dall’immagine di un’Italia sanguinaria e vendicativa, che lascia fermentare in miseri lacerti scoloriti opere che turbano i sensi: l’esecuzione capitale ritratta nella Giuditta e Oloferne di Caravaggio sarà in grado di agitare le perturbazioni più profonde della sua sensibilità. L’arte italiana parla attraverso i nervi, il fegato e lo spettacolo del sangue. Anche Anna Jameson userà l’esempio della drammaticità dell’arte italiana per promuovere la contrapposta concezione dell’arte come elevazione morale, primigenie innocenza e atto purificatorio.

Eppure, andare per via consente di decentrare l’obiettivo e di cambiare inquadratura, diventando occasione di ricerca di un ascolto di carattere pubblico, attraverso cui sollecitare i più fini sentimenti e <<nutrire le sorgenti dell’umana comprensione>>, aprendo una finestra sulla spettacolare umana mutevolezza. Anna Miller scriverà nel 1776 che il viaggio ci <<invita a sbarazzarci di quei pregiudizi talmente radicati nel nostro modo di vedere da impedirci di giudicare in maniera imparziale coloro che, vivendo in paesi lontani, sembrano essere diversi da noi in maniera direttamente proporzionale alle leghe che ci separano>>. Il pregiudizio è un giudizio parziale dipendente dalle contingenze dei contesti, laddove invece il viaggio si traduce in un atteggiamento benevolente verso il prossimo e ogni forma di diversità, scalzando il senso di superiorità dell’itinerante che si fa sostenitore dei propri supposti valori e mitigando il suo arrogante individualismo di forestiero. 
Il Grand Tour deve ammansire l’energica alterigia delle <<persone illuminate>> corrotte da spocchia e pregiudizi, del tutto autonome rispetto alle credenze e superstizioni del mondo mediterraneo. Nel suo giornale, dai contorni di un breviario sentimentale, Elisa von der Recke avrà modo di interessarsi all’analisi delle reazioni italiane davanti a fenomeni inconsueti. In occasione di un’eclissi di luna a cui assiste a Ischia, gli abitanti della contrada campana appaiono sereni e distesi. Al Nord, lo stesso fenomeno -scrive- avrebbe generato paure irrazionali. Questo perché l’impronta cultuale cattolica di cui il Mezzogiorno italiano è impregnato pensa a far presa sui sensi e a diffondersi con effusione e teatralità, mentre il protestantesimo dei paesi nordici affonda le radici in una cultura razionale e riflessiva. 
Nel secondo tipo di approccio, l’immaginazione reinventa l’antico, che ottiene la fascinazione della statuaria, riempiendo i vuoti con i lavori degli atelier di artisti come Canova, Thorvaldsen o Bartolini. Antichità note come quelle romane sono infatti percepite come fagocitate da una natura conflittuale, lussureggiante e parassitaria, che agli occhi di Elisa von der Recke ha voluto racchiudere in un abbraccio geloso le rovine del Colosseo, addobbato al tempo da una verdeggiante foresta.
L’Italia è il luogo dove la concrezione di immagini evocative e suscettibili di ammirazione si scontra con le ristrettezze private. Hannah More sostiene i libri di viaggio confondano l’immaginazione e impediscano di tracciare una linea di confine tra le mirabolanti avventure narrate (frutto di esagerazioni letterarie) e una vita molto più deludente e colma di tedio. 
Mary Barry, viaggiatrice inglese settecentesca, non prova remora mentre annota nelle sue puntuali osservazioni di viaggio le problematicità materiali del percorso italiano: difficoltà nel superamento di fiumi e guadi, locande inospitali infestate da pulci e zecche, maestri di posta che forniscono cavalli recalcitranti e sconquassati.

Élisabeth Vigée Le Brun

Esperienza a parte che merita attenzione è quella della parigina Élisabeth Vigée Le Brun  (1755 – 1842), pittrice e figura cardine del suo tempo, emigrata da Parigi poiché costretta dalla piega sanguinosa della rivoluzione, dopo il trasferimento coatto dei sovrani al palazzo delle Tuileries. Ritrattista di corte con un precoce successo professionale e una genialità sorprendente, finirà nel mirino dell’opinione pubblica per i suoi rapporti con la sovrana, un’intesa amicale che in un periodo suscettibile come quello rivoluzionario in cui si agitano fermenti repubblicani diventa stigma e macchia. Maria Antonietta è infatti la più accanita committente di Elisabeth (è suo il monumentale Maria Antonietta e i suoi figli, 1787).

Élisabeth Vigée Le Brun, Autoritratto mentre dipinge Maria Antonietta (1790)
Élisabeth Vigée Le Brun, Maria Antonietta e i suoi figli, 1787

Lo stile di Élisabeth diventa così anche una scelta di precisa matrice politica: l’umanità di gesti, sguardi, sorrisi ritratti sarebbero stati in grado di avvicinare la sovrana al suo popolo.
In un’epoca in cui le donne dovevano dare pubblica prova delle proprie capacità artistiche, la  sua mano sarà oggetto di invidia di molti pittori uomini e della sua celebre rivale Adélaïde Labille-Guiard. Élisabeth spezza i formalismi della ritrattistica dell’epoca utilizzando il pennello con una sensibilità psicologica, dipingendo soggetti in pose spontanee, liberandoli dal grigiore dei vecchi irrigidimenti compassati.
Dietro commissione di William Hamilton, ritrarrà anche sua moglie Emma Hart, la futura Lady Hamilton, incastonandola in un’opera che recupera allegorie e simbologie classiche avvolte da un alone di seduzione e lascivia. A metà tra una sacerdotessa di Bacco e una Maddalena, Lady Hamilton appare a immagine di una Sibilla, con la sua sciarpa attorno al capo che la avvicina figurativamente alla Sibilla Cumana del Domenichino. 

Domenichino, Sibilla Cumana (1617)
Élisabeth Vigée Le BrunLife Study of Lady Hamilton as the Cumaean Sybil (1792)

La leggerezza con cui rinnova i messaggi stilistici e figurativi viene anche dai suoi venerati maestri italiani, in primis l’Urbinate, di cui imita i famosi drappeggi, un involucro di bellezza ideale da cui Élisabeth non si staccherà mai, neanche quando a Firenze l’anatomista Felice Fontana, sollevando un coperchio corrispondente alla convessità dello stomaco sulla sua Venere di cera e rivelando le viscere degli organi intestini, vorrà indurla a scoronarsi dall’impronta raffaellita per penetrare la veridicità conturbante del corpo, ma per lei il marchio pubblicitario professionale è già stato deciso da sempre, perché <<dipingere e vivere sono stati un’unica cosa>>.

Tra Settecento e Ottocento

A cavallo tra Settecento e Ottocento sfumano le ultime concezioni che vedono nel viaggio italiano un condensato di souvenir e spettacoli, per aprire le porte a riflessioni lucide e misurate sulle contingenze storiche della realtà: Mary Barry osserverà come il transito dell’esercito austriaco a Roma, diretto verso il Regno delle Due Sicilie si presenta come una rappresentazione teatrale per chi sa che il flagello è diretto altrove. Allo spettacolo sono accorsi anche vetture con maschere di carnevale, gaie e ridanciane: <<La scena era veramente impressionante: uno dei più futili divertimenti dell’uomo messo a confronto con una fra le sue occupazioni più serie>>. 
Sebbene le misere condizioni materiali e morali della società italiana, largamente ridotta senza educazione, la genialità creativa agli italiani non manca, né tantomeno sentimenti profondi e genuini, anche se -osserva Elisa von der Recke- quelli che si impongono come necessari sono una legislazione, una giustizia imparziale e una religione illuminata per riconvertire le passioni irrefrenabili e violente in virtù morali. 

Alexandra Bastari

Bibliografia

  • Le viaggiatrici del Grand Tour, Storie, amori, avventure – Attilio Brilli con Simonetta Neri, il Mulino, Bologna, 2020

15 commenti

  1. Molto interessante: rileggerò, appena riuscirò, e tornerò. Mi segno, intanto, il libro della bibliografia, e grazie. I tuoi “articoli” sono sempre approfonditi e accattivanti, come quelli ispirati anche dal manuale universitario su cui abbiamo studiato entrambe (Storia Moderna, Capra). Un sorriso di vera luce… e buona serata.

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  2. hai fatto un gran lavoro e ho letto con attenzione e siceramnete sei stata più che esauriente! per quel che riguarda la “pittura” in snso lato c’era anche per i pittori maschietti il desiderio del Tour in Italia, in particolare per quelli d’oltre oceano che spesso preferivano l’ITalia alla Francia! davvero Brava

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